Dopo una pausa più lunga del previsto torna la rubrica che ho da poco inaugurato ma che è già nel mio cuoricino seriale (spero presto anche nel vostro).
Si tratta di "Operazione Pilot", la rubrica che mi permette, e vi permette, di tornare indietro alle grandi serie del passato più o meno recente, con gli occhi di chi quello show lo ha già visto, sviscerato ed amato e che ora torna a visitare la prima stanza entro cui abbiamo avuto il privilegio di accedere anni ed anni fa, ovvero il primo episodio, il cosiddetto episodio pilota, di quello specifico show.
Un modo per parlarne senza dover per forza rivedere l'intero show (anche perchè dove lo potrei trovare il tempo...) e cercando di capire se le fondamenta di serie tv cosi rilevanti nella storia della tv fossero già ben salde sin dall'inizio.
E' un esperimento che vi invito a fare.
E' molto speciale ritornare indietro e fermarsi al primo episodio con la consapevolezza dello spettatore che già sa tutto, che ha già visto tutto, che conosce già che direzione prenderà la storia.
Prima di andare avanti e conoscere la serie, il pilot di cui vi parlerò oggi, vi lascio ai primi 2 episodi della rubrica. Li trovate cliccando ai link sotto:
La serie che vi presento oggi è una delle serie di cui vado più orgoglioso poichè testimonianza diretta di un fiuto seriale che da anni sento di avere (che modesto).
La serie in questione, oggi celebratissima, aveva vissuto una prima stagione nell'ombra, in un'ombra talmente scura che era rarissimo trovare qualcuno che ne conoscesse anche solo l'esistenza.
Poi, d'un tratto, la sua fama esplose, i premi iniziarono a cadere a pioggia e la sua autrice decise (e questo la dice lunga sul carattere granitico di questa talentuosissima donna) di non cavalcare l'onda e chiudere lo show con la seconda stagione, proprio quella che le aveva garantito fama, successo e prosperità.
Sto parlando di Fleabag, serie britannica, ideata, diretta ed interpretata da Phoebe Waller Bridge, prodotta da Amazon Prime Video e ancora oggi disponibile sulla piattaforma di Bezos.
La serie made in UK si articola in 2 brevissime stagioni da 6 episodi ciascuna e si incasella, innovandolo completamente, all'interno di quel genere dramedy che tante soddisfazioni ci ha dato negli ultimi 10 anni.
La serie non è mai stata ufficialmente chiusa o cancellata. In tanti, anzi, sperano ritorni presto ma, sin dal 2019 non abbiano notizie di un suo ritorno.
Fleabag rappresenta uno di quei casi concreti di recuperone obbligatorio poichè rapido (con 6 ore di visione terminerete lo show) e impagabile (difficilmente troverete in giro qualcosa di meglio con sole 6 ore di investimento).
Il pilot, cosi come tutto lo show, non è indimenticabile come potrebbe essere il pilot di Lost (qui la recensione) o quello di Game of Thrones (qui la recensione) ma è, senza ombra di dubbio, un episodio che delinea, sin da subito, i tratti distintivi di quella che sarebbe stata la storia che Phoebe Waller Bridge avrebbe voluto raccontarci e, soprattutto, le modalità con cui la prolifica autrice avrebbe voluto farlo.
L'abbattimento della quarta parete, oggi divenuto quasi un clichè visto l'uso reiterato che se ne va nel medium televisivo, qui diventava una cifra distintiva della serie stessa che riusciva a servirsene in maniera impeccabile per instaurare un rapporto di fiducia e amore con la disfunzionale protagonista.
Fleabag è il nome di questa ultima, interpretata, appunto, da Phoebe Waller Bridge, è una donna londinese sulla trentina dotata di una fortissima ironia, pungente come quella di Ricky Gervais e acuta come quella che ammiriamo da sempre negli show britannici più riusciti. E con quella sua irriverente personalità che Fleabag ci conquista creando da subito un legame diretto con noi spettatori.
L'abbattimento della quarta parete è invadente, molto più invadente e personale di quanto ci fosse capitato di constatare sin lì nel mondo del cinema e della tv, con ovviamente qualche distinguo.
La protagonista parla con noi durante i momenti più intimi della sua vita, raccontandoceli secondo il suo privilegiato punto di vista. Non si avvicina a noi, non si mette in disparte per poter parlare con noi ma ci catapulta in media res in ogni momento cruciale che passa sullo schermo.
Diventiamo, cosi, i suoi amici prediletti mentre è intenta a fare sesso, mentre anticipa una penetrazione anale con il suo amante occasionale, mentre presenzia ad una noiosa conferenza femminista con la sorella, mentre colloquia con una potenziale nuova fiamma, mentre duetta con la madrina.
Siamo la sua sponda emotiva, rappresentiamo i suoi amici immaginari e ben presto, capiremo, senza che sia davvero mai detto esplicitamente, che quel suo bisogno di avere qualcuno oltre lo schermo nasce dall'immenso vuoto esistenziale che la risucchia e la avvolge senza darle scampo.
Oltre quella coltre di sarcasmo, di dissacrante e sagace ironia, di punzecchiamenti, di sbavature emotive, di battute e considerazioni attente su chi le sta intorno, si cela una giovane donna ferita dalla vita e, tutto sommato, sola.
Il ritratto di Fleabag è molto personale ma, ben presto, si trasformerà in un ritratto generazionale.
30 anni. Donna. Nessuna relazione stabile. Rapporti labilissimi con la famiglia. Una sorella come unico appiglio. Un'amica fedele, leale, divertente e gioviale morta qualche anno prima in un assurdo incidente. Vita professionale devastata.
Fleabag, con le sue personalissime specificità, è l'icona di una generazione perduta, sballottata in lungo e in largo lungo le coste della vita ed incapace di sognare cose realizzabili, impossibilitata ad avere veri punti di riferimento.
E' la generazione dei nati negli anni '80 o nei primi '90 quella che Phoebe Waller Bridge rappresenta e che in questi anni autori come Donald Glover, Aziz Ansari e tanti altri hanno saputo cogliere. Sono, siamo, saranno i trentenni ed i quarantenni di quest'ultimo decennio e del decennio che verrà. Quelli che hanno visto i genitori crescere nel benessere, nella possibilità di scegliere come trascorrere la propria vita, con guadagni appropriati, amicizie durature, amori in larga parte duri a morire. Sono, siamo, saranno quelli che saltano da una relazione all'altra, che vivono il lavoro come fosse un'ospizio permanente dal quale transitare per potersi permettere una casa in affitto, qualche drink in città, una serata carina da trascorrere con uno sconosciuto che andrebbe in estasi per un po' di sesso anale.
E' una generazione perduta, fintamente iper-connessa, a cavallo fra 2 mondi, quello analogico e quello digitale, che rimpiange cose che non ha mai avuto e sogna cose che non avrà mai.
Phoebe Waller Bridge la disegna magistralmente parlandoci con il cuore e lo sguardo di una donna gioviale, simpatica, autoironica e brillante che ha perso ogni punto di riferimento e che va in giro, carica di battute per tutti, con una "sad face" come le dirà sul finale la ragazza ubriaca sul ciglio della strada.
La grandezza di Fleabag si intravedeva subito.
Non potevamo immaginare che sarebbe diventata una delle migliori serie del decennio.
Non potevamo immaginare che sarebbe diventata una serie pluripremiata.
Non potevamo immaginare che sarebbe diventata una serie da rimpiangere.
Potevamo, però, coglierne il potenziale e capire che quell'autrice, quell'attrice, quella regista, quella protagonista, non le avremmo più dimenticate.
Sarebbe diventato un cult.
Un cult sconosciuto e proprio per questo ancora più impagabile, ancora più unico, ancora più obbligatorio da recuperare.
Ad impreziosire lo show ci sono personaggi secondari che secondari non sono su cui vale la pena ricordare che, nel ruolo della madrina di Fleabag, vi è il premio oscar Olivia Colman (The Crown, Landscapers).
Una gemma preziosa in un castello fragile fatto di diamanti, zaffiri e rubini sapientemente incastonati dalle abili mani di quella che sarebbe divenuta una delle autrici più apprezzate del suo tempo.
Un motivo in più per fiondarsi su Fleabag e per diffondere il verbo di Phoebe Waller Bridge.
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