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Se fosse un film sarebbe da Oscar: The Underground Railroad

Nei giorni scorsi, come sapete, ho avvertito il bisogno di scrivere un articolo di "first impression" su The Underground Railroad, la nuova serie Amazon Prime Video firmata dal premio Oscar Barry Jenkins (Moonlight).

In quell'articolo (che trovate qui) sottolineavo come, sin dal primo episodio, appariva chiara la portata dell'opera che Jenkins ci stava proponendo, un'opera poetica e tecnicamente sbalorditiva, con una regia, e soprattutto una fotografia, da Oscar.

Nei giorni successivi ho, ovviamente, terminato la visione di The Underground Railroad, riuscendo a metabolizzare ancor di più le mie prime impressioni e arricchire ulteriormente sensazioni e certezze sulla serie Amazon.

Cosa volete che vi dica?

Ampliate gli orizzonti voi membri dell'Academy e l'anno prossimo includete nelle nominations per zio Oscar anche qualche serie tv perchè se quest'anno Nomadland vi ha convinto, vi assicuro che The Underground Railroad, dal punto di vista nella messa in scena e dal lato tecnico, è stata in grado di superare per bellezza e qualità il film più bello dell'anno e lo ha fatto impennando, in curva, senza mani, sorseggiando una Leffe ambrata con una mano e leggendo Nietzsche dall'altra.

Il tutto senza perdere di vista il messaggio, senza tralasciare mai la sostanza delle cose.

Come di certo saprete, The Underground Railroad è tratto dal romanzo omonimo di Colson Whitehead, pubblicato nel 2016 ovvero ieri se guardiamo alla grande storia della letteratura e dell'uomo.

Per farla semplice il romanzo parlava di 2 schiavi in fuga, dalla Georgia verso la scoperta del "vero volto dell'America", attraverso un treno che fa "ciuf, ciuf" lungo i binari di una misteriosa ferrovia sotterranea, da cui il titolo.

Per farla complicata il romanzo, e la serie, parlano di quanto sia stata vasta la rete di sofferenza all'interno della quale il popolo afroamericano sia caduto nel corso dei secoli, in un turbinio di frustate, roghi, botte, pistolettate, fucilate, denigrazioni, privazioni che non hanno avuto ne fine, ne spiragli.

The Underground Railroad racconta di quanto sia stato soffocante e privo di ogni appiglio il percorso che, nei secoli, ha portato il popolo afroamericano ad emanciparsi, liberandosi da catene fisiche e metaforiche.

Quando minimizziamo eventi legati al razzismo o a piccole ma infamanti intolleranze e discriminazioni, faremmo bene a ricordarci che ciò che oggi appare piccolo, ieri rappresentava ogni cosa, rappresentava un trattamento dell'uomo nero alla stregua di un maiale o una gallina, di un sasso o un pezzo di ferro su cui battere a fuoco caldo per imprimere la forma desiderata e resistente.

Per secoli, ogni donna, uomo e bambino afroamericano è stato equiparato ad un animale, da nutrire selvaggiamente per renderlo più robusto e performante, in modo che potesse lavorare e produrre infaticabilmente fino alla fine dei suoi giorni.

The Underground Railroad è un racconto straordinario, onirico e poetico, che riesce a penetrare nelle carni di noi spettatori impigriti e satolli, restituendoci un dramma collettivo che non possiamo non fare nostro.

La memoria, il valore della memoria deve essere pietra fondante della nostra società e deve esserlo nel ricordo dell'olocausto quanto dell'apartheid e ancor di più per la schiavitù imperitura a cui il popolo afroamericano è stato relegato per secoli.

La tragedia fisica ed emotiva che hanno subito è stata cosi grande da lasciare cicatrici enormi anche a coloro i quali son nati liberi ma vincolati al ricordo di genitori, nonni, antenati vissuti in catene.

Quella tragedia è stata di molti ma per far si che non venga a ripetersi, deve diventare di tutti.

Barry Jenkins non si piange addosso ma come nella migliore tradizione Hitchockiana non descrive ma mostra, con le sue immagini straordinarie.

Il viaggio della giovane Cora da uno Stato all'altro, da un inferno all'altro è il connubio perfetto tra la speranza di evadere da quella condizione alla realtà dei fatti, quella per cui nessun "negro" avrebbe mai potuto ambire alla libertà, ad arare un campo, respirare l'aria da uomo libero, avere un tetto costruito con le proprie mani, del cibo da servire a tavola, poesie da declamare, decisioni da prendere.

Il mondo di Cora (eccezionale interpretazione di Thusu Mbedu) è un mondo graffiato dall'inesistenza e dall'oblio ma nel quale c'è sempre spazio per l'illusione più che per la speranza.

Cora, come tutti gli altri "negri" sa che non vi è nessun posto per lei a parte quello che "l'imperativo americano" ha scritto per il suo popolo. Cora deve lavorare e procreare, ammutolirsi e restare nell'ombra, ignorante come una pecora, nuda come una cicogna, sprovveduta come un bambino, silenziosa come il mare d'inverno.