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La quarta stagione di The Handmaid's Tale è selvaggia e coraggiosa

Con l'episodio dal titolo The Wilderness, in onda lo scorso 16 giugno su Hulu, ed in contemporanea su Tim Vision in Italia (e su Amazon Prime Video molto presto), si è conlusa la quarta stagione di The Handmaid's Tale.

Piena zeppa di eventi e con almeno un paio di scelte cataclismatiche nell'economia della serie, e non solo, la stagione numero 4 ha, per nostra fortuna, continuato a essere quello che le altre 3 stagioni ci avevano abituati ad essere: una serie intensa, coraggiosa e disturbante come poche altre.

La paura iniziale era che questa stagione potesse non sapere che strada prendere, orfana della guida dei libri della Atwood.

A meta stagione un colpo di scena ci ha preso alla sprovvista e ci ha gettato nel panico più totale.

Sarebbero stati in grado, gli autori, di gestire un evento cosi dirompente?

Al termine della stagione la paura si è trasfromata in potente e viscerale emozione e forse anche in una telefilmica preoccupazione per quelli che potranno essere gli sviluppi futuri per la nostra June ma nulla poteva renderci più partecipi e felici della piega nuova che questa straordinaria serie ha saputo prendere.

Tra qualche spoiler, riflessioni e immagini rappresentative di questa stagione, procediamo con l'articolo dopo il primo piano di June "fucking" Osborne.

L'evento che provavo a citare senza citare era quello, ovviamente, della fuga da Gilead della protagonista.

Ne ho già parlato in altri articoli (qui, qui e qui) ma quel che conta è sottolineare come dopo 3 anni gli autori abbiano deciso che il percorso di dolore di June dentro Gilead dovesse giungere al termine.

Basta stupri, stop alle violenze, niente più abusi.

The Handmaid's Tale era pronta a mettersi alle spalle quello che era sempre stata ed era giunta al punto in cui voleva fare i conti con le conseguenze fisiche e psicologjche sulla mente e il corpo di una donna seviziata e abusata "legalmente" per 7 anni della sua vita.

Questo punto, atteso e cruciale, non poteva essere che un naturale approdo per la serie, che prima o poi avrebbe dovuto mostrarci gli impatti nella vita reale di quella vita irreale, macabra e atroce tra le mure della "repubblica di Gilead". Il coraggio, però, di farlo sin da ora e non in una futura stagione finale, non deve apparire scontato. In molti lamentavano la mancanza di spiragli per la storia di June ma in pochi ne lamentavano l'efficacia. In tanti si erano sollevati contro le ripetute violenze mostrate nelle stagioni passate ai danni di June e in tanti reclamavano una svolta forte e non solo accennata nel suo percorso di ribellione e fuga.

Quella svolta è arrivata, quasi inaspettatamente, facendo piombare la serie in una nuova era, fatta di rivoli scoscesi e pianure deserte ma colma di opportunità narrative da sfruttare.

Bruce Miller e gli altri hanno dimostrato di saper e di poter raccogliere questa ardita sfida, impugnando le penne come se fossero coltelli e scrivendo una seconda parte di stagione spietata e senza appello.

La parola "coraggio", che ho già usato spesso in questo articolo e che credo userò ancora, rimanda allla "Forza d’animo nel sopportare con serenità e rassegnazione dolori fisici o morali, nell’affrontare con decisione un pericolo, nel dire o fare cosa che importi rischio o sacrificio".

Non è forse proprio quella che June ha mostrato nei suoi 7 anni a Gilead, quando doveva fingere amore, passione, travolgimento emotivo per evitare che quella forza crollasse e i suoi tentativi di riprendere il controllo cessassero? In varie sequenze finali, non a caso, c'è questo montaggio alternato che ci riporta ai "balli lenti" fra il comandante Waterford (Joseph Fiennes) e la sua ancella, durante i quali June doveva fingersi disposta ad abbracciare, coccolare, baciare, amare il suo carnefice, il suo stupratore, il suo aguzzino, il suo rapitore.

La June che torna a casa, libera, senza gli abiti rossi con la quale era costretta a convivere, lontana dagli assurdi rituali di Gilead, fuori da ogni gioco perverso dei Waterford e dei comandanti degli ex U.S.A., è una June irrimediabilmente forgiata dal dolore e dalle conseguenze di quel dolore costante e infinito che gli si è appiccicato addosso per 7 lunghissimi anni nei quali oltre ai soprusi ha dovuto convivere con la privazione del suo essere madre, moglie, donna.

La chiave per spiegare quello che accade nel finale e la giustificazione di quegli eventi clamorosi è tutta qui.

Chi aveva pensato che la June libera potesse accontentarsi della libertà e di qualche gruppo di ascolto per tornare a vivere la propria vita, non ci aveva ovviamente capito nulla o meglio aveva immaginato che The Handmaid's Tale fosse una serie normale, una serie eccezionale ma comunque facente parte dei canoni classici della grande serialità.

The Handmaid's Tale, con The Wilderness, dimostra, una volta di più che serie spaccaculi sia e quanto coraggioso sia il suo cammino.

Una serie qualunque avrebbe mostrato il percorso riabilitativo di June, i suoi traumi, le conseguenze di quei traumi, il distacco dal marito, la rabbia verso i propri carnefici per poi scemare in una resurrezione morale del personaggio che mai si sarebbe sporcata le mani del sangue dei suoi violenti e barbari aguzzini perchè guai a diventare come loro.

E' un dilemma etico che riscontriamo in tutta la fenomenologia dell'eroe, sia fumettistica che più popolare, dai classici Marvel ai recenti WandaVision e Loki, dal Daredevil al Capitan America fino agli eroi meno fumettosi dipinti da Nolan in Westworld.

The Handmaid's Tale in effetti ci mostra tutto questo (la terapia, la confessione, i problemi ad accettare la libertà, la freddezza con Luke ecc), inducendoci a pensare che anche June diverrà un topoi del supereroismo. Forte e tenace ma violenta no. Non sia mai.

Il colpo di scena finale non è dunque tanto nel colpo di scena in sè (che resta comunque un cliffhanger tra i più mirabolanti che io possa ricordare) ma nel ribaltamente dell'idea che ci eravamo fatti del personaggio e della sua potenziale ascesa ad eroina "buona".

Se tanto mi da tanto, la June ricoperta di sangue e leader rivoluzionaria di un esercito di ex ancelle e Marthe, non dovrebbe rispecchiare al 100% l'idea classica che ci siamo costruiti dell'eroe senza macchia e senza paura.

June, però, è quella malmenata e calpestata dall'uomo che ha poi ucciso e appeso al muro. E' la stessa che veniva legata ad un letto e costretta a subire una penetrazione "feconda" da parte di quel potente sconosciuto erettosi a suo protettore e comandante, sotto gli occhi di sua moglie Serena. June è, però, colei la quale ha rischiato la vita mentre era a Gilead, per salvarne delle altre, perdendo tante amiche lunghe il percorso e portando le loro morti, spesso, sulla coscienza. June è quella donna a cui anni prima era stata portata via la sua bambina e a cui era stato strappato il calore di suo marito Luke (a proposito ma quanto è cane l'attore che interpreta Luke?).

June è colei la quale non ha potuto leggere un libro o scrivere su un foglio di carta per 7 anni poichè la legge lo proibiva. June è una donna spersonalizzata e disumanizzata in ogni sua forma. June è una donna libera che non riuscirà mai più ad amare allo stesso modo di prima, a fare l'amore allo stesso modo di prima, a discernere il male e il bene allo stesso modo di prima. June è OfFred ma libera e in quanto tale potrà liberarsi dalle catene solo quando avrà ultimato la sua vendetta, solo quando avrà ripulito il mondo dalla feccia Gileadiana.

In questa accezione, il finale e la leadership di June sono assolutamente giustificate e giustificabili e anzi sono da applaudire perchè gli autori hanno saputo tirare dritto senza avere paura di creare una situazione nella quale June potesse essere dipinta come una villain, come una donna dissennata, come una violenta pazzoide incapace di superare il trauma.

Il finale disturba moltissimo, soprattutto per quello che potrebbe significare.

June e le altre sono state talmente corrotte dal dolore e dalla violenza da non riuscire ad andare avanti con la propria vita, dal non riuscire a perdonare, dal non riuscire a restare ferme di fronte ad altre ingiustizie, nonostante il calore e l'affetto dei tanti volti amici e dei familiari con i quali potrebbero dimenticare tutto e ripartire, o almeno provarci.

E' una scelta fortissima quella che la serie fa, specie se consideriamo che ad essere al centro di questa svolta sia una donna, in un ribaltamento pericoloso e quasi inedito della figura della donna in quanto essere libero, autodeterminato e non controllato dal barbaro e feroce uomo, padre/padrone del destino di ogni fanciulla.

June è stata vittima di cose atroci, inenarrabili. Cose che nessun uomo o donna potrebbe mai comprendere appieno, se non noi spettatori, che da un punto di vista privilegiato siamo stati testimoni, in un perverso ma sincero flusso empatico, di quanta sofferenza sia piombata nella vita di June.

L'ex OfFred è la risultante di quelle atrocità. Avrebbe potuto accettare la libertà e godersela, senza guardarsi più indietro, tanto quanto avrebbe potuto scegliere di suicidarsi, nella convinzione e accettazione di essere stata per sempre violata e privata della sua dignità, cosi come avrebbe potuto decidere di continuare a combattere, in una veste come in un altra.

June diventa una leader armata e disposta all'estremo gesto pur di continuare a battagliare in campo aperto contro un nemico di cui conosce volto, tradizioni, strategie e pensiero.

Dal punto di vista diegetico quello che accade è totalmente coerente e plausibile. Potrà non piacervi, potrà disturbarvi, potrà sembrarvi inusuale ma è costruito su solide fondamenta.

A questo discorso tutto interno alla serie si accompagna un macigno extradiegetico che, a mio modestissimo parere, rende The Handmaid's Tale, ed in particolare questa stagione, un miracolo, ed è tutto il discorso che ruota intorno al tema della donna e del femminismo.

Per dirla in romanesco e senza troppa eleganza è come se gli autori ci avessero voluto dire: "avete voluto la libertà e la parità di genere: ecco cosa puà significare".

Provo a spiegarmi.

Nella battaglia contemporanea che la donna sta portando avanti con ogni mezzo possibile per ottenere, finalmente, la propria dignità e reclamare il proprio posto nel mondo, rovesciando la bieca dinamica patriarcale che ha governato il mondo per millenni, spesso si tende a non considerare l'altro risvolto della medaglia.

Abituati come siamo a dipingere gli uomini come bruti e le donne come vittime, a stereotipare guerrieri, eroi ed assassini con volti maschili e mai femminili, abbiamo perso di vista il fatto che anche la donna, anche le donne, se private dei freni che ne hanno condizionato l'esistenza per millenni, potrebbero finire per essere altrettanto brute, spietate e sanguinolente come gli uomini.

Siamo talmente avvezzi ad edulcorare i comportamenti femminili, a tratteggiare comprensivi ritratti di donne forti ma ragionevoli, ad umanizzare anche i traumi più feroci, che mai avremmo immaginato che un'orda di donne ferite, dilaniate dal dolore di una vita strappata barbaramente da un intero popolo di invasati, potesse sfociare in una rappresaglia cosi veemente e fredda, calcolata, voluta, quasi desiderata.

Quello che accade nelle sequenze finali, badate bene, non è solo un momento importante per The Handmaid's Tale e la serialità quanto un momento quasi epocale per il costume e la società moderna.

Quello che potrebbe sembrarvi un discorso esagerato e troppo eccessivo resta, a mio avviso, il cardine sul quale si poggia il clamoroso e coraggioso successo di questa quarta stagione.

Le donne sanno essere spietate, sanno unirsi, sanno combattere ed in conseguenza di quelle azioni scientemente intraprese dovranno scendere a patti con la propria coscienza, con la propria eticità. E' un passaggio clamoroso secondo me. Non so cosa ne pensate ma resto fermo dell'idea che qui si sia fatta la storia, che ancora una volta potrà piacere o meno ma nel suo piccolo tornerà a reclamare un proprio posto nel mondo e negli almanacchi non solo seriali.

Voglio terminare questa analisi, però, parlando di colei la quale ha elevato la serie ai massimi livelli come probabilmente nessuno avrebbe saputo e potuto fare.

Elisabeth Moss è il vino rosso gran riserva, prodotto dalla cantina migliore e nell'annata migliore, senza il quale quel pasto 3 stelle michelin non avrebbe lo stesso sapore. E' la bellezza di Capri sullo sfondo del vostro aperitivo in terrazza ma è anche la sostanza delle cose, quella che rende uniche e favolose le vostre cene, i vostri momenti d'oro, i passaggi cruciali della vostra vita.

Elisabeth Moss è stata come sempre divina nella sua recitazione a 360° che ha spaziato dal dramma al tormento, dall'odio all'amore, dalla paura alla tenerezza senza soluzione di continuità in un gioco di sfumature che lascia sempre a bocca aperta.

A tutto questo Elisabeth Moss ha aggiunto anche degli episodi nei quali ha vestito i panni della regista. Che ci crediate o no, ho finito per riconoscere alcuni episodi dal suo tocco dietro la camera da presa.

Che abbia un futuro anche da cineasta?

Chi può dirlo?

Quello che possiamo dire con assoluta certezza è che la quarta stagione di The Handmaid's Tale è uno dei punti più alti dell'ultimo biennio seriale e si conclude con un contrasto pazzesco fra la gioia di un abbraccio e le lacrime volte ad un futuro incerto.



 


Sviluppo Personaggi: 8

Complessità: 7,5

Originalità: 9

Autorialità: 10

Cast: 8

Intensità: 10

Trama: 8

Coerenza: 8

Profondità: 10

Impatto sulla serialità contemporanea: 8

Componente Drama: 10

Componente Comedy: 0

Contenuti Violenti: 8

Contenuti Sessuali: 6,5

Comparto tecnico: 8

Regia: 8

Intrattenimento: 4

Coinvolgimento emotivo: 10

Soundtrack: 4

Produzione: Hulu

Anno di uscita: 2021

Stagione di riferimento: 4

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